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Teatrionline > Blog > Prosa > Il fantasma di Canterville secondo la Signora Umney
Prosa

Il fantasma di Canterville secondo la Signora Umney

Lucia Tempestini
Ultima modifica: 28 Febbraio 2013 12:58
Lucia Tempestini
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fotodi Ugo Chiti liberamente tratto da Oscar Wilde

regia Lucia Poli

musiche di Andrea Farri – elementi scenici e costumi di Tiziano Fario

luci di Alfredo Piras – sartoria Concetta Assennato – video Sara Pozzoli

produzione Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi Teatro Stabile di Innovazione

con Lucia Poli e Simone Faucci, Lorenzo Venturini

Molte ombre si profilano nei corridoi misteriosi del castello di Canterville, abitati dal grigiore polveroso dei secoli e dai passi cauti della Signora Umney, vestale modesta e orgogliosa della memoria, ancella e cantrice preziosa di fatti di sangue, nerissime storie familiari, nonché metamorfosi e apparizioni succedutesi nel corso di un tempo continuamente ritrovato. Le modulazioni attente, amorevoli, devote dell’incessante narrare e ri-narrare della cara Signora, gotico ed epico, favoloso e realistico, si agitano (con leggera apprensione) intorno alla figura del Fantasma di Sir Simon, collerico gentiluomo vissuto nel tardo cinquecento, e dalle azioni crudeli (e piuttosto eccitanti, considerato il loro macabro umorismo) perpetrate dal nobile individuo in vita e in morte, ossia come ectoplasma viscido, morbido, con sfumature verdastre, fosforescente, mobile, retrattile, e capace di infinite mutazioni. Numerosi ospiti del castello sono rimasti menomati dal terrore (o sono addirittura trapassati) alla vista di Ruben il Rosso, violatore di cadaveri dissotterrati, o dello Spettro Piccino dal piede equino, o ancora dallo Smunto, fantasma dalle ossa scricchiolanti. E tutti hanno provato un brivido arcano nel posare lo sguardo sull’indelebile macchia di sangue che imbratta il tappeto del salone. Sangue appartenuto alla sfortunata sposa di Sir Simon, Lady Eleanore, sbattuta contro le foglie d’acanto del rosone in un incontrollabile accesso d’ira.

Ahimè, niente di tutto ciò, né racconti né manifestazioni spaventose, sembrano incrinare il monolitico pragmatismo americano, l’impertubabile, vuoto ottimismo dei nuovi proprietari del castello: l’assordante e supponente famiglia Otis, composta dal Ministro Hiram, dalla moglie Lucrezia, dal tracotante, avidissimo figlio maggiore Washington, dai vandalici gemelli Tim e Tomb e dalla silenziosa adolescente Virginia, unico elemento del gruppo dotato di una certa sensibilità. La

Fede nel Progresso spinge addirittura i due pargoli pestiferi e irrispettosi a cancellare quotidianamente la chiazza purpurea e delittuosa con lo smacchiatore universale Pinkerton. Tanta ottusa ed energica perseveranza sfianca sia Lord Canterville che la sempre più disperata governante. L’angoscia crescente della Signora Umney – resa da Lucia Poli con strumenti di ineguagliabile sottigliezza capaci di incidere nell’affabulazione un controllatissimo pathos, un progressivo slittamento verso il deliquio e l’ossessione malinconica – davanti all’incrinarsi di un mondo (potremmo dire, al funesto e molesto “apparir del vero”) si manifesta con una perturbazione insieme psichica e fisica, con il desiderio di essere posseduta (mentalmente, per carità) dallo spettro infelice (ormai ridotto a cenciosa, muffita parvenza dalle guance livide), per assumerne l’identità, per farlo sopravvivere, per non perderlo; affinchè non si perda la sua funzione nel mondo: svelare l’infinita, intollerabile banalità del reale e mostrare, magari per un istante, attraverso il varco aperto dal terrore, la divina possibilità della “vita che sta dietro a quella vera” (così cara a Hofmannsthal).

Sarà infine Virginia (ancora Lucia Poli, così aerea e garbatamente maliziosa da incantare persino il fantasma di Oscar Wilde) a curare la stanchezza secolare di Sir Simon e condurlo al Giardino della Morte. Una Morte transitoria, visto che lo Spettro tornerà a far visita alla fanciulla, ospite notturno e assai gradito, dopo il “perfetto” matrimonio di Virginia con un giovane Lord.

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