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Teatrionline > Blog > Prosa > La classe operaia va in Paradiso: dal grande schermo al palcoscenico
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La classe operaia va in Paradiso: dal grande schermo al palcoscenico

Erika Di Bennardo
Ultima modifica: 27 Febbraio 2018 10:15
Erika Di Bennardo
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Apre il triennio che vede il docente universitario e regista Claudio Longhi alla direzione di Emilia Romagna Teatro Fondazione lo spettacolo La classe operaia va in Paradiso, liberamente tratto dall’omonimo film di Elio Petri.

Quando uscì nelle sale nel 1971 il film ebbe scarso successo in Italia ma all’estero godette di numerosi riconoscimenti tra cui la Palma d’Oro a Cannes. Paolo Di Paolo, già collaboratore di Longhi, firma la drammaturgia dello spettacolo avvalendosi di numerosi riferimenti la maggior parte delle volte espliciti presi in prestito alla pellicola.

Lo spettacolo nasce dalla voglia del regista di discutere in maniera forte e immediata del problema più che mai attuale del lavoro, o meglio della sua mancanza. Il confronto tra la contemporaneità in cui viviamo e i problemi sociali e politici degli anni settanta potrebbe sembrare però lontani anni luce, e anzi addirittura inconciliabile.

Il processo entro il quale si colloca lo spettacolo allora risulta anacronistico, non solo a livello tematico ma anche a livello formale. La vicenda viene narrata scenicamente tale e quale a quella cinematografica, se non fosse per l’evoluzione di uno dei personaggi più intriganti, Militina. La regia rispetta fedelmente i tempi del film inframezzando le scene più importanti proiettando immagini della sigla e dei titoli di coda di quest’ultimo, sortendo un effetto quasi noioso perché più volte ripetuto. Il motivo di questa scelta non è del tutto chiaro visto che, a fronte delle due orette del film lo spettacolo ne dura almeno due e mezza.

Lo spettacolo viene giocato tutto su un livello, non ci sono grandi picchi di tensione o pathos e l’impressione che si ha è per l’appunto quella di star vedendo un film. Ben fatto e interpretato, ma pur sempre un film. Anche gli attori incarnano in tutto e per tutto le caratteristiche psicofisiche dei personaggi del film e fin troppo forzata in alcuni di loro risulta la carica interpretativa, che si trasforma quasi in caricatura a volte, come nel caso di Diana Marea, la Lidia della grandissima Mariangela Melato.

Fa eccezione in questo senso Lino Guanciale, in scena Lulù Massa il protagonista che rappresenta il lavoratore perfetto, l’operaio modello, la “macchina” che manovra le macchine si potrebbe dire. Un giorno il suo mondo crolla a causa di un incidente alla mano e Massa si ritroverà a fare i conti con una vita che non sa gestire perché dedito al lavoro più di ogni altra cosa. Guanciale trascina sapientemente i cambi psicologici e fisici del personaggio, dando spessore alla disperazione vissuta durante lo spettacolo fino all’epilogo.

Efficaci sia a livello scenico che da un punto di vista metaforicamente drammaturgico sono invece le scene di Guia Buzzi: la regina è la fabbrica e il grigio la fa da sovrano tra giunture, macchinari e apparecchiature industriali. Punto a favore della messa in scena, in dialogo con i rumori ferrosi delle macchine che scandiscono la giornata lavorativa di Massa, è la musica che fa da sottofondo durante la quasi totalità delle scene, suonata e arrangiata da Filippo Zattini.

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