Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
La parola e la memoria. L’una veicola l’altra attraverso la mediazione coinvolgente dell’emozione, rendendo il reading scenico del testo di Primo Levi curato da Daniele Salvo una rappresentazione di potente suggestione.
La lettura drammaturgica di Daniele Salvo, Patrizio Cigliano, Martino Duane e Simone Ciampi di stralci del testo, suddiviso in canti in progressione cronologica, crea un’empatia che sbalza lo spettatore nell’inferno del lager, facendogli percepire il gelo, la fame, la fatica, la paura, la disumanizzazione.
Un racconto corale in cui si intrecciano tutte le voci del campo di lavoro di Monowitz, sorto nel 1942 come distaccamento del campo di concentramento di Auschwitz per utilizzare con maggiore profitto i deportati schiavi presso l’impianto per la produzione di gomma sintetica Buna-Werke.
La voce dell’autore racconta i fatti, esprime pensieri, esterna considerazioni sulla condizione umana e ne descrive l’ineluttabile perdita di umanità. La voce dei nazisti impartisce ordini perentori, declama regole inflessibili e rituali insensati imponendo procedure che privano i prigionieri di connotazione umana cui si sostituisce l’identità numerica impressa sul braccio e quella di categoria espressa dal simbolo cucito sulla divisa (criminale, politico, ebreo). La voce dei prigionieri narra i rapporti tra i deportati, gli assillanti interrogativi sulla sorte dei familiari, le strategie messe in atto per guadagnare qualche piccolo privilegio, gli slanci di solidarietà e amicizia, con l’ausilio delle potenti immagini evocative della miserevole condizione in cui versavano i prigionieri nel campo.
Da Fossoli ad Auschwitz, in quel febbraio 1944, il lungo viaggio verso l’ignoto è una discesa agli inferi dell’abiezione umana, in cui il passato viene rimosso e il futuro non è previsto, esiste solo la sopravvivenza quotidiana.
Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi) è la scritta che campeggia sul cancello d’entrata al campo. Quale lavoro, quale libertà? Sono schiavi ridotti ben presto allo stremo, destinati fin dall’arrivo all’eliminazione in un turnover che punta a sfruttarne fino all’ultima scintilla di energia prima della soluzione finale.
Il racconto si fa poesia col canto di Ulisse, quando lo scrittore in fila per la zuppa recita a un compagno di sventura francese i versi del XXVI canto dell’Inferno dantesco, quelli dell’eroe omerico che stimola i suoi compagni a perseguire la sete di conoscenza.
Primo Levi sopravvisse allo sterminio grazie a due eventi favorevoli. Essere stato assegnato al laboratorio possedendo una laurea in chimica ed essere stato colpito dalla scarlattina all’arrivo dell’Armata Rossa il 27 gennaio 1945, poiché i nazisti avevano evacuato il campo con migliaia di prigionieri lasciando i malati e i moribondi.
‘Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice’.
Memoria, letteratura, poesia, innescano l’alchimia di un’alta performance di teatro civile.
La sera della prima il teatro era gremito di ragazzi, ai quali passare il testimone della storia.