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Teatro dell’Opera, Peter Grimes di Benjamin Britten o la solitudine dell’outsider

Fabiana Raponi
Ultima modifica: 4 Novembre 2024 13:07
Fabiana Raponi
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Il capolavoro di Deborah Warner e Michele Mariotti per la più celebre delle opere di Britten fra conflitto tra società e individuo chiude la stagione del Costanzi

Si conclude con uno degli spettacoli più emozionanti e convincenti di Sconfinamenti, la stagione 2023-2024 del Teatro dell’Opera di Roma con il Peter Grimes di Benjamin Britten con la regia di Deborah Warner diretto dal Maestro Michele Mariotti. Un successo di pubblico per uno spettacolo semplicemente bellissimo per un’opera andata in scena scena all’Opera solo nel 1961 e ascoltato nel 2013 in forma di concerto diretto da Antonio Pappano a Santa Cecilia.
La Warner torna a Roma dopo il successo di Billy Budd nel 2018 e porta stavolta in scena l’emarginazione di un singolo, Peter Grimes, che assume tristemente il valore universale.


“La storia della stigmatizzazione dell’outsider e della necessità di un gruppo di persone sotto pressione di trovare un capro espiatorio è tristemente senza tempo. Peter Grimes è una persona incompresa. È un outsider e ha scelto di esserlo”. Queste le parole di Deborah Warner, pluripremiata regista britannica che ha optato per un impatto fortemente emotivo per la messinscena oscillando tra pochi, efficaci momenti onirici (in apertura il ricordo del processo di Peter) ad altri efficacissimi vividi momenti naturalistici che mettono in scena la working class inglese.
La storia viene infatti trasportata in un decadente villaggio inglese contemporaneo che sembra riecheggiare la società descritta da Ken Loach, disegnando tratti popolari in ogni personaggio, costruendo un clima tipico dei bassifondi inglesi di una società impoverita, insofferente, incattivita e arrabbiata dove alla miseria si mescolano il rancore e il pregiudizio. In ogni dove si respira tutta la meschinità del villaggio (scene di Michael Levine e costumi di Luis F. Carvalho) e il sospetto che si erge intorno a Peter Grimes, solitario e scorbutico pescatore intorno cui aleggia il sospetto della responsabilità della morte del suo apprendista in mare.


Una figura che riecheggia in tutta l’opera proprio attraverso l’apprendista che volteggia in aria legato con le corde che invade gli incubi di Grimes, seppur prosciolto dalle accuse per la legge, ma responsabile ed emarginato dalla società.
Sempre trascinanti, di crudo realismo le scene di gruppo soprattutto nella scena della taverna con i paesani che entrano a gruppi all’interno dello spazio per ripararsi dalla tempesta, lacerante la spiaggia con i detriti.

Il cast unico, è in continuità con l’edizione del 2021: il famoso tenore statunitense Allan Clayton interpreta Peter Grimes è vocalmente potente, fisicamente perfetto per un personaggio testardo ed emarginato che spera di mettere a tacere i pettegolezzi del villaggio arricchendosi. La sua interpretazione restituisce un personaggio rude e poetico al tempo stesso, un vero e proprio outsider, che si sviluppa intorno alla morte che personaggio travolto dal coro in lontananza con la voce che si spoglia di ogni colore fino a essere inghiottito in mare, condannato dalla società che lo ritiene colpevole anche della morte del fondo giovane apprendista.

Crede in lui solo la dolcissima Ellen, Sophie Bevan, ma sono ben tratteggiati anche gli altri personaggi tra cui il capitano Balstrode di Simon Keenlyside. Immenso il Coro preparato dal Maestro Ciro Visco, vero protagonista della storia fino all’esaltazione dionisiaca della caccia a Peter che diventa una sorta di fantoccio nell’atto finale.
Alla prima direzione del Grimes, Michele Mariotti regala “lussureggianti pagine sinfoniche, possenti cori, arie solistiche meravigliose“, ricorda il Maestro, inquietudine sfuggente e struggente della partitura mantenendo un piglio fluido e drammatico, nella potenza degli interludi che sembra richiamare il mare, sempre minaccioso e antagonista.

Se la Warner regala continuità drammaturgica, Mariotti regala intensità e fluidità ai suoni intensi, fin una partitura ricca di contrasti dove riecheggia l’inquietudine del mare. Da un parte la bellezza maestosa della natura, dall’altra, l’aridità delle relazioni umane.
Standing ovation deal pubblico più che meritata per la riscoperta di un’opera commovente e poco conosciuta.
A ridosso delle ultime recite del Grimes, si conclude stagione al Teatro Nazionale, in coproduzione con il REF, – RomaEuropa Festival, con L’ultimo viaggio di Sindbad su musica di Silvia Colasanti su estratti di testi di Erri De Luca, con la regia di Luca Micheletti, primo progetto triennale dedicato alle compositrici donne che vede il debutto del giovane Enrico Saverio Pagano sul podio, confermando l’attenzione ai giovani talenti anche nel cast, con la presenza di lusso di Roberto Friontali. L’ultimo viaggio di Sindbad è un dramma corale che ripercorre le vicende di un capitano, ispirato alla leggendaria figura di Sindbad, arrivato al suo ultimo viaggio con un carico di uomini, donne e bambini che diventa la vicenda simbolo delle grandi tragedie contemporanee, tra echi biblici e leggende del mare. È un lavoro in sette quadri, con la musica che riflette la provenienza di “altrove” grazie a strumenti tradizionali di culture diverse che dialogano con l’orchestra e con gli echi popolari delle voci e che si interroga sull’urgenza dell’accoglienza del viaggio gettando uno sguardo a temporale sul dramma della migrazione in un scorcio di nave costruita dove si alternano i personaggi con le loro storie fatte di speranza di violenza ribadendo il rifiuto della violenza e della guerra, con un viaggio atemporale. Libretto un po’ pasticciato, ma di buone intenzioni che lascia un finale aperto a una personale interpretazione.

Fabiana Raponi

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