Baudelaire, Dante, i Greci. Al Teatro Argentina di Roma, fino al 19 gennaio 2025
“Monsieur Baudelaire, le vite degli altri mi attirano, perché nello specchio delle vite altrui – uno specchio deformato, trasparente, rivelatore – spero sempre di trovare una risposta alla mia vita, un riflesso di conoscenza, un barlume di chiarezza, un invito al coraggio”. Sono le parole di Giuseppe Montesano, traduttore e autore di romanzi e di saggi letterari, autore del libro omonimo (Bompiani, 2023) che prendono vita sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma in uno spettacolo interpretato e diretto da Toni Servillo.
La narrazione scenica di Toni Servillo, che legge e recita l’intero testo in cui è lo scrittore che si rivolge direttamente al Poeta francese, è basata su alcuni brani celebri tratti da “Le fleur du mal” di Charles Baudelaire, testimone della condizione di un uomo che rifiuta le maschere sociali e il conformismo borghese e, al tempo stesso, dell’aspirazione alla perfezione e alla bellezza, in una società creata dall’uomo ma non a sua misura, costretto a vivere in uno stato d’animo caratterizzato da profonda malinconia, insoddisfazione e noia.
Con destrezza camaleontica, nella seconda parte Servillo cambia registro passando da una recitazione a perdifiato e senza titubanza dei versi di Baudelaire a una declamazione piana e pacata dei versi dedicati al Sommo Poeta, “voce di un ventriloquo divino”, tratti dal Canto dell’Inferno della Divina Commedia, che riecheggiano la popolare storia d’amore dei due sventurati amanti, Paolo e Francesca, e le gesta eroiche di Ulisse, simbolo dell’amore per la conoscenza che, tuttavia, sconta l’inganno perpetrato ai danni dei troiani che portò alla vittoria finale dei greci.
Nell’ultima parte, Toni Servillo narra la sapienza degli antichi filosofi della Grecia, quel popolo che si nutriva di immaginazione e di teatro come strumento per conoscere se stessi e disvelare la verità nascosta, che inventò l’Europa della ragione e il mito della caverna, allegoria dell’uomo che riesce a liberarsi dalle catene per poter accedere alla conoscenza e alla scienza.
Servillo si affida ai suoi natali di estrazione napoletana, città tra le più importanti della Magna Grecia, per abbandonarsi a un accattivante eloquio dialettale, che riesce a strappare più di qualche sorriso a un pubblico molto attento, che fino a quel momento ha rispettato il silenzio, come durante l’esecuzione di un’orchestra o di un musicista, e che finalmente, dopo qualche minuto per dare il tempo all’esecutore di distogliersi dalla concentrazione, può sciogliersi in un lungo applauso.
Il racconto si sviluppa su un palcoscenico “spazio vuoto della memoria” rappresentato da uno sfondo a led con variazioni cromatiche controbilanciato da effetti di luce, con una scenografia scarna dominata da un leggìo e da un piano reclinato sul quale, a brevi intervalli musicali, si muove il protagonista.
Un’ambientazione che concentra l’attenzione sull’Attore che, grazie alle sue abilità espressive, evita di far cadere nella didascalia lineare l’intero spettacolo.
L’intento dichiarato è ambizioso. Interrogarsi sull’efficacia del progresso e sui pericoli derivati da un’accettazione acritica della dittatura digitale e affidarsi alla lettura, alla bellezza semplice e pura della poesia, “l’arte di non morire”.
La calibrata interpretazione di Toni Servillo, attore di lunga esperienza molto amato dal pubblico, insignito di tre David di Donatello e di tre Nastri d’Argento per le interpretazioni di personaggi memorabili sul grande schermo, rimane sulla soglia della complessa e appassionante poetica di tre giganti letterari che hanno cambiato la nostra storia e hanno cambiato anche noi, e sostanzialmente non va oltre la fissità dell’ineluttabile condizione di “uomo” irrequieto, spaventato dagli ignavi danteschi contemporanei inclini alla paralisi del pensiero, al quale non resta che “ritrovare quelle parole che un attore dice con tutto il suo corpo e la sua mente per nutrire la sua e la nostra interiorità” per cercare di diventare vivi.
Roberta Daniele