In scena al Teatro India di Roma fino al 23 marzo 2025
‘In principio era il Verbo, e il Verbo era Dio’.
Il verbo, la parola, esiste dall’eternità ed è di natura divina. Costituisce l’intima essenza dell’essere umano, il suo spirito vitale. Se la parola viene meno o viene sostituita da quelle di altri, l’essere umano perde la sua identità.
Questo testo teatrale di Juan Mayorga è imperniato sul potere catartico, o corruttivo, della parola.
Una donna, mentre si trova in ospedale per far visita al marito ricoverato, viene avvicinata da una enigmatica signora che le propone un accordo per salvargli la vita: deve imparare tre nuove parole al giorno. L’impegno sembra di poco conto ma, col passare del tempo, Felicia si accorge che le nuove parole le stanno imponendo una diversa identità.
Perché le parole che pronunciamo veicolano i pensieri, espressione della nostra peculiarità, e diventano malsane se delegate ad altri di cui non conosciamo i propositi.
L’ospedale, dalle stanze tutte uguali, sembra sguarnito di personale medico e infermieristico. L’unica persona che Felicia incontra è la donna vestita di nero, dai modi algidi e scostanti e tuttavia seduttivi, che dichiara di chiamarsi Salinas.
Chi è? Un medico, il direttore dell’ospedale o un funzionario amministrativo? Salinas non conferma e non smentisce, appartiene a una ignota organizzazione sanitaria, non risponde alle domande, impartisce solo disposizioni e stigmatizza i comportamenti di Felicia che, mentre attende l’orario delle visite, sorseggia una birra analcolica in un bicchiere di plastica. La scruta da giorni, conosce le sue abitudini, è subdolamente manipolatoria e proterva.
Felicia è perplessa e titubante, ma intende salvare il marito e sceglie di fidarsi. Non si conosce la malattia, la terapia saranno le parole.
Tre parole, ogni giorno tre nuove parole non potranno cambiare la sua vita, pensa Felicia, ma possono salvare la vita di Ismaele.
In realtà le parole hanno un potere magico, ci rappresentano e ci definiscono, comunicano all’esterno il nostro mondo interiore, esercitano un potere sulla realtà.
I due sposi si incontrano, si confrontano su questo metodo terapeutico.
Felicia inizia a trasformarsi, le nuove parole disegnano una nuova personalità, che scoprirà essere quella di un leader rivoluzionario del passato.
Un matematico codifica le parole in numeri, che vengono iniettati in Ismaele trasformandolo in un’entità astratta, un Golem, il gigante di argilla della cabala ebraica, da plasmare a piacimento, cui attribuire forma e pensieri.
È il rischio presente nella società contemporanea, ammonisce nel finale Felicia, un despota può reprimere un popolo e manipolarne il pensiero.
La coppia è estranea a se stessa, accomunata solo dal dolore e da un canto rivoluzionario, nella stanza dell’ospedale che porta al Paradiso, sottoterra.
Monica Piseddu è lacerata e lacerante nella scelta drammatica di accettare tutto per amore del marito. Elena Bucci è affilata come una lama nella spregiudicatezza della sua proposta, pervicace nel sostenerne l’efficacia e la necessità. Prive di gestualità, le due donne si fronteggiano esprimendo soltanto la potenza comunicativa dei dialoghi. Woody Neri è Ismaele.
La scenografia di Gregorio Zurla è di forte suggestione emotiva: due serie di buie porte vetrate si intersecano ad angolo retto aprendosi sugli ambienti un po’ claustrofobici in cui si svolgono i diversi momenti della vicenda. Su di esse si riflettono e si sovrappongono i visi delle due donne fino a trascolorare l’una nell’altra, immagine plastica della sovrapposizione mentale in atto. Le vetrate diventano anche il supporto delle proiezioni in bianco e nero di vaste foreste di Lorenzo Letizia con le luci di Gianni Staropoli, accompagnate dai suoni ritmati e dodecafonici di Giorgia Mascia.
Dietro le pareti specchianti si dissolverà l’ombra inerme di Ismaele, ormai privo di emozioni.
La regia di Jacopo Gassmann dà allo spettacolo il ritmo di un thriller, che amalgama testo, recitazione e immagini in una suspense che avviluppa nelle sue spire.
Juan Mayorga, drammaturgo del panorama teatrale spagnolo, costruisce una storia che ci interroga sul nostro tempo.
Lo spettacolo, nella traduzione Pino Tierno, fa parte del trittico che il Teatro di Roma dedica alla cultura ebraica per una riflessione sulla tragedia dell’antisemitismo, insieme a La banalità dell’amore di Savyon Liebrecht, struggente e impossibile storia d’amore tra Hanna Arendt e il professor Martin Heidegger, nell’adattamento di Piero Maccarinelli (6-18 maggio al Teatro India); e A torto o a ragione di Ronald Harwood con la regia di Giovanni Anfuso, celebre storia di Wilhelm Furtwangler direttore d’orchestra tra i più famosi della sua generazione, accusato di essere nazista per aver scelto di continuare a dirigere in Germania durante la guerra (già andato in scena dall’11 al 16 febbraio al Teatro India).
Juan Mayorga dichiara: “Avevo scritto El Golem alcuni anni fa, ma qualcosa è accaduto durante il lockdown – in mezzo allo sconvolgimento generale, all’angoscia di tanti, alla paura di altri che l’ordine in cui avevamo vissuto potesse crollare – che mi ha spinto a riscriverlo. Il tema centrale, credo, è il potere delle parole che ci avvolgono e ci attraversano e con le quali costruiamo i nostri incubi e i nostri sogni”.
Scrive Jacopo Gassmann: “La parola, appunto, intorno a cui tutto ruota, a partire dal mistero profondo di questo testo. La parola che al contempo può rigenerarci o segnare traumaticamente i nostri destini. La parola che può certamente liberarci ma anche trasformarci fino a non riconoscere più chi siamo. La parola che crea e distrugge (….) L’autore getta il suo scandaglio negli abissi di questa epoca oscura, raccontandoci di un mondo che sta lentamente collassando o sfarinando – verrebbe da dire – mentre, come diceva Flaiano, ‘qualcosa si va lacerando nel tessuto divino dell’umano’”.
Tania Turnaturi