Il Teatrodante Carlo Monni inaugura la nuova stagione con una scommessa.
A 40 anni dalla nascita di Fantozzi ragionier Ugo, Paolo Villaggio calca il palcoscenico di Campi Bisenzio – ammesso che lo si possa fare su di una poltrona immobile sul proscenio. All’entrata in sala del pubblico l’artista genovese è già lì ad attenderlo, a scrutare i volti di quelli che presto si scoprono avventori, passanti che, quasi per caso, dopo la biglietteria del teatro hanno trovato Paolo Villaggio seduto su una vecchia poltrona e hanno deciso di starlo a sentire. Non c’è inizio e non c’è fine, non c’è trama e non c’è scenografia, in una serata che è difficile catalogare come spettacolo. Quando, incuriositi dal titolo o affascinati dal ricordo dell’unica maschera del teatro contemporaneo italiano, gli spettatori avevano cercato informazioni sullo spettacolo, si erano imbattuti in un’unica, ermetica, accattivante dichiarazione del protagonista: “Non c’è nulla da ridere, non c’è nulla di serio, non è uno spettacolo, è soltanto una truffa, ma venite a vederci, lo facciamo per soldi, ormai siamo poveri e abbiate pietà”. Arlecchino si confessò burlando, verrebbe spontaneo pensare, per rimanere in tema di maschere. Ma sarebbe una lettura superficiale di quella che da qui in avanti chiameremo semplicemente serata.
Paolo Villaggio è un comico che ha sancito un’epoca dell’arte televisiva – e non solo – italiana, un osservatore critico e attento delle dinamiche e delle derive sociali degli anni Sessanta, un personaggio nuovo nel mondo dello spettacolo, che come tale lo ha accolto e sconvolto. Un uomo che ha visto e fatto vedere tanto e che ha ancora qualcosa da raccontare. Vorrei tanto non andare al mio funerale è, nelle intenzioni, una riflessione tragicomica sulla morte e insieme un ricordo, dalla malcelata malinconia, di grandi personaggi di ogni genere d’arte, amici e conoscenti meno graditi di Villaggio, che ne conserva lucida la memoria. La serata è un flusso discontinuo di ritratti e aneddoti, che il comico stenta a strutturare, invano fiancheggiato e spronato da Pino Strabioli.
È un nonno che ha paura di non avere il tempo di descrivere ai nipoti il gioco sadico della guerra, un saggio che ammonisce a diffidare di chi non teme. Dietro la poltrona, sullo sfondo, uno schermo disegna immagini di vita, d’amore di amicizie, dell’alchimia televisiva che fa incontrare personalità eccentriche: tra queste e il proscenio, un grande spazio vuoto, un tempo. La serata è allora, forse, un’affannosa battaglia di Villaggio col tempo, troppo breve per dimenticare, troppo lungo per restare, e la sola sua -nostra- arma a disposizione è l’ironia. Non pianti ed epitaffi, niente lutti o monumenti funebri, ma una grassa risata e tutto passa. Una candida illusione.
Vorrei tanto non andare al mio funerale è un tentativo di vincere il tempo e il determinismo della fine, di quella della vita come di quella della carriera, di non temere ciò che non possiamo controllare, di poter decidere come affrontare i fati, ed è un tentativo fallito. Di più: è il tentativo fallito di farci passare da vincitori di fronte al fallimento. E in questo risorge, esasperato, il fallimento continuo di Fantozzi, maschera della natura umana prima che della commedia italiana, e Villaggio paga – mai come questa volta – l’identificazione dell’artista con il ruolo interpretato, rendendone indefiniti i confini.
Scommessa vinta.