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Arsenico e vecchi merletti

Tania Turnaturi
Ultima modifica: 29 Dicembre 2015 08:40
Tania Turnaturi
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fotoUna gigantesca teiera che sbuffa nuvole di vapore è la dimora di due vispe e bizzarre signore, amorevoli e caritatevoli verso gli ospiti che accolgono in casa, tanto da decidere di lenire i loro, presunti, travagli interiori facendoli accomiatare dalla vita serenamente, sorseggiando del vino di sambuco corretto all’arsenico. I “signori”, dopo questo benevolo trattamento, vengono seppelliti nella cantina della casa, dove il nipote Teddy sostiene di stare scavando il canale di Panama ritenendo di essere Theodore Roosevelt.

Il perfetto equilibrio tra le diverse follie viene turbato dall’arrivo di Mortimer, altro nipote di Abby e Martha Brewster, che vuole presentare la fidanzata, in vista del matrimonio. Accortosi della labilità mentale delle ziette che descrivono garrule le loro imprese filantropiche, pensa di farle trasferire in una residenza per signore anziane e far internare il fratello Teddy in una casa di cura, ma gli eventi incalzano con l’arrivo dell’altro fratello, Jonathan, che esibisce il viso deturpato da cicatrici per gli interventi estetici cui si è sottoposto perché ricercato, accompagnato dal dottor Einstein, amico alcolizzato. Presto si scoprirà che anch’egli è un pluriomicida, che si porta dietro un cadavere di cui vuole disfarsi seppellendolo nella cantina, ma intanto lo occulta nella cassapanca dove giace anche l’ultima vittima, la dodicesima, delle care signore.

Inizia una vorticosa girandola di forsennati tentativi da parte di Mortimer di razionalizzare eventi e comportamenti che cozzano sia contro la disincantata e disarmante spontaneità delle zie intenzionate a proseguire nella loro missione, sia contro la follia maniacale dei suoi due fratelli.

Come mai solo Mortimer sia immune dalla follia familiare si saprà alla fine, quando le zie paciosamente gli riveleranno di non appartenere geneticamente alla famiglia.

Questa commedia noir di Joseph Kesselring ha debuttato a New York nel 1941, concludendo le 1444 repliche nel 1944, definita dal New York Times “così divertente che nessuno la dimenticherà mai”. Il film di Frank Capra del 1944 con Cary Grant ha dato immortalità a questo capolavoro di humour lieve e dissacrante, raffinato e cinico, fantasioso e moralista. Nel 1945 è stata rappresentata in Italia con Rina Morelli, Paolo Stoppa, Olga Villi, Arnoldo Foà.

La chiave del successo risiede nell’impostazione surreale che rende farsesca e inverosimile una circostanza criminosa. La regia di Giancarlo Marinelli conferisce alla vicenda la levità di una favola noir, resa ancora più onirica dalla scenografia della casa-teiera, dai costumi caramellosi delle zie, le svagate e svolazzanti Paola Quattrini e Ivana Monti, dal trucco da mostro di Frankenstein dello psicopatico Jonathan. Afferma, infatti il regista, che la madre gliela raccontava come una favola: “C’era una volta una grande casa con due vecchie signore, un cimitero, una cantina, un matto che suona la tromba e un mostro alto due metri …”.

Sergio Muniz nei panni di Mortimer si prodiga incessantemente per tenere le fila di tutti gli stravaganti comportamenti e trovare risposte ragionevoli a osservazioni imbarazzanti, perfino da parte del poliziotto che dovrebbe dipanare l’intrigo.

Gli interpreti sembrano godersela un mondo sul palcoscenico, indubbiamente ci si diverte molto in platea.

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