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Vetri rotti

Roberta Daniele
Ultima modifica: 7 Febbraio 2020 18:07
Roberta Daniele
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1852
Vetri rotti
Foto di Mario D'Angelo
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Vetri rotti
Foto di Mario D’Angelo

La serata di apertura dello spettacolo “Vetri rotti”, tratto dall’opera del drammaturgo statunitense Arthur Miller, si è conclusa con applausi meritati.

È il 1938, in Germania i nazisti stanno intensificando la persecuzione degli ebrei e, nell’altra metà del mondo, una comunità ebraica di Brooklyn reagisce con sgomento alla notizia; l’affascinante Sylvia Gellburg (Elena Sofia Ricci) è profondamente colpita dalle immagini dell’attacco tedesco agli ebrei, noto come Kristallnacht, al punto di perdere improvvisamente la sensibilità alle gambe. Al contrario, suo marito Phillip, che rifiuta la propria ebraicità, tende a minimizzare quei tragici eventi, angosciato com’è dai problemi coniugali.

Nel groviglio di sentimenti, debolezze caratteriali, ferite e paure, si insinua il dottor Hyman (David Coco) il quale, indagando sulla “paralisi isterica” di cui Sylvia è affetta, scopre che la sua insoddisfazione è dovuta a un matrimonio senza appagamento sessuale e, nel tentativo di risvegliarla, intreccia una sensuale relazione con la sua paziente.

L’allestimento in due atti di Armando Pugliese restituisce tutto il fulgore della penna raffinata di Miller, mettendo a confronto ad ogni cambio di scena, in serrati duetti, il sestetto di attori, tutti bravi nell’intrecciare i fili domestici e introspettivi con quelli drammatici legati a un’era di persecuzioni razziali e di minaccia di una nuova guerra. 

Il marito di Sylvia, Phillip, interpretato brillantemente da Maurizio Donadoni, si vanta di essere l’unico ebreo nella sua azienda, trascurando il fatto che il suo capo non è immune dall’antisemitismo strisciante dell’epoca. I suoi sentimenti altalenanti, indecisi e sofferti, quando non addirittura goffi, si manifestano dolorosamente, con lampi di umorismo; veste sempre in nero “come un ospite al funerale perpetuo del proprio senso di sé”.

Sylvia, dal canto suo, è legata alla sedia a rotelle, la sua immobilità è la vera essenza della commedia teatrale, è simbolo accusatorio nei confronti dell’America di Roosevelt e metafora dell’impotenza del mondo di fronte a Hitler.

I due si confrontano nel finale abbandonandosi a confessioni (dall’esito forse prevedibile) che, in un gioco senza via d’uscita, segnano un solco ancora più profondo fino a culminare in un sorprendente, e perfino ironico, epilogo.

La scenografia rigida di Andrea Taddei dominata dal letto matrimoniale dei Gellburg, che fa da cornice alla incomunicabilità di coppia, i costumi di Barbara Bessi, che riportano a un’atmosfera dandy degli anni ’30, completano una generosa produzione dell’opera milleriana, che disegna gli albori di un’era del terrore collocandola nella vita domestica in frantumi di una coppia americana.

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