Dal 7 al 12 gennaio 2025 a Roma
Un corpo libero a terra, sconquassato nel patimento, atterrito con la volontà di atterrire chi crede di ascoltarlo. Sormontato da stoffe multicolori e sorretto da aste metalliche, nel muoversi, ci appare ben addestrato. Tintinnano le asticelle lasciandolo mugolare. L’uomo pervaso dal dolore della storia, tanto del tempo vissuto, quanto di quello vagamente ricordato, si ripercuote sulla scena e in faccia al pubblico, irriverente e più in là insolente. Il corpo elastico e pimpante di Antonio Rezza torna più in forma che mai e salta tra un ostacolo e l’altro della presunta intellighenzia: tra sottosegretari politici arrivisti e prostitute d’altri tempi, tra Porfirio marchio d’eccellenza con saldi tutto l’anno sotto consumismo selvaggio e gli indiani resi muti dalla perdita della memoria degli studiosi di regime. Ma l’uomo è tiranno, si sa. Antonio e Flavia lo sanno così bene che gli elastici tramite quali si sorregge l’uomo atletico (o atleta di Dio, da Dio) tirano più del dovuto e tessono fila di maglie piene di buchi, così tanti buchi, da poterci infilare la testa dentro, nel riuscire a farla respirare.
E da lì, dalla capoccia, lasciar fuoriuscire un falsetto da urlo, un richiamo per l’ovile sospetto, celato nell’ombra, dalla quale si può fare qualcosa (mentre nella luce si può solo dire, poiché si è sotto l’attenzione di tutti). Il nonsense rincorre il sense in maniera pleonastica, come un ghirigori aereo che s’illude di poter atterrare sul compiuto, ma è solo un inganno. L’autore-attore ne è consapevole e si dilunga più del dovuto, come un’ossessione, in versi umani e versacci animali, giacché l’uomo è da lì che proviene ed è dove sembra essere sempre più propenso a tornare. Uomo-animale allo stato brado che offre lezioni di vita come banditore d’aste, un professionista del maltolto subito e restituito sotto forma d’ingiurioso verboso, saltellante bivacco.
L’uomo è pellegrino di se stesso e padrone con gli altri da sempre, ogni qualvolta vede qualcosa su cui mettere le mani. Una speranza è data dalla danza di classe, perché danzare fa bene e armonizza mente e corpo, come correre, ma è pur sempre roba di classe. Sono sempre e comunque bestie, a confronto del divino. Bahamuth insegna, per l’appunto. Suprematizza il sottoposto, gli sguatteri che di tanto in tanto entrano in scena come elementi dinamici per non far altro che sottolineare la supremazia del sozzo. Versatili e alquanto mobili, direi pindarici, subentrano di soppiatto come marionette o androidi di una nuova era che è uguale alle precedenti. C’è sempre un solo potere e varie categorie di sottoposti.
C’è chi si dimena e urla, ascolta e non sente, parla e non vede alla luce, capisce tutto al buio. L’uomo rigurgita situazioni tribali per disseminare il tribolato, rimanda a creature mitologiche per associarsi al divino, si rende antropomorfo nel disperato tentativo di entrare nelle menti, associandone i sensi, dell’uomo contemporaneo, con l’assillo di tutte le problematiche che lo mettono in un angolo (o al tappeto ancora, senza rimorsi). E si può rialzare e riprendere le redini di se stesso soffermandosi sulle piccole cose, a partire dalle singole parole, dalle frasi, dai frammenti di discorsi che si apre nel dire, nel tentativo di comprendersi, e magari comprendere sotto il macigno del corpo. L’uomo-autore è un fardello e anche se non vediamo Flavia, sembra esserci eccome, in scena con lui, con Antonio. Si portano appresso entrambi il fardello di una comunicazione passata e mai compresa davvero dall’uomo contemporaneo, disabituato a fermarsi per auscultarsi davvero.
Il ritmo lo percuote dall’interno (proprio come un rigurgito tribale), non può abbandonarlo, è parte di se stesso e gli impedisce di prendersi del tempo. Corre e rincorre performance che non lo appagano mai davvero, tutt’al più lo sollecitano a produrne di nuove, e sempre più esili, fuggevoli. E allora ecco perché è impossibile centrare di cosa parla davvero “Bahamuth”. In tutti i suoi innumerevoli frammenti indisposti, nei suoi sprazzi di genialità irriverente, nelle sue reiterazioni portate all’insopportabilità in maniera eccedente (il nervo scoperto di uno show che vuole provocare quel pubblico abituato alle comodità). La parola finisce poi per essere sempre più recitata in corsa e sempre meno da fermo alla luce nel mezzo (e agli angoli) del buio. Tant’è che le luci si accendono per essere spente subito dopo e il buio subentra per preparare alla nuova luce. Succede spesso nell’ora e venti di spettacolo (senza intervallo). E forse questo Bahamuth non è stato mai scritto, come ci tiene a sottolineare uno dei suoi autori nella presentazione antecedente. Antecedente al creato e sempre e comunque, contemporanea al sentire, parola urlata (in)vano. Si vede ma non si sente. Si sente e non si vede. E si esce frastornati, ma eccitati, come usciti da un pertugio. Come se ci si portasse appresso tutto l’ambiente giocattolo. Il gioco infingardo dell’uomo immaturo, smarrito nella miseria della media comprensione.
Una produzione Rezza Mastrella – La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello
Regia Antonio Rezza, Flavia Mastrella
con Antonio Rezza, Manolo Muoio, Neilson Bispo dos Santos
(mai) scritto da Antonio Rezza
Habitat Flavia Mastrella
Liberamente associato a Il Manuale di Zoologia Fantastica di J.L. Borges e M. Guerrero
Assistente alla creazione Massimo Camilli
Luci e Tecnica Alice Mollica
Teatro Vascello (7-12 gennaio 2025)