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Teatrionline > Blog > Prosa > I numeri dell’anima – Il Menone di Platone
Prosa

I numeri dell’anima – Il Menone di Platone

Giorgia Petani
Ultima modifica: 5 Marzo 2015 17:28
Giorgia Petani
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fotoEra da molto tempo che avevo il desiderio di assistere ad una pièce che trattasse un tema filosofico.

Al teatro Oscar ho il piacere di assistere ad una rappresentazione del Menone di Platone.

Entro in sala, in trepidante attesa, una sinfonia di Schubert mi culla la mente preparandomi all’apertura della prima scena.

Un tavolo al centro del palco, una bottiglia, una pistola pronta a sparare proiettili che solcano l’animo e la mente di ognuno, questi proiettili sono le parole, e la forza che emanano con dialoghi e confutazioni; tre uomini e non uomini qualunque, sono estasiata, finalmente ho davanti a me Socrate, Anito ed il giovane Menone, allievo del sofista Gorgia.

La domanda da cui il Menone prende le mosse è se la virtù sia insegnabile o no.

Socrate prontamente chiarisce il quesito sostenendo che prima è necessario comprendere cosa la virtù sia. Il non sapere socratico costringe gli altri interlocutori a soffermarsi più volte mettendo in discussione il proprio presunto sapere, perché la distinzione tra doxa ed epistème, opinione e verità è sostanziale.

La confutazione è d’obbligo nel Menone come in tutti dialoghi platonici, per poter avanzare la ricerca sull’argomento da trattare, perché Socrate permane sulla convinzione che è necessario definire cosa si stia cercando.

Il giovane Menone pone un problema, apprendere qualcosa pare impossibile, o si conosce quello che si sta cercando e allora la ricerca è inutile, o non se ne sa nulla e di conseguenza la ricerca è impossibile.

Socrate confuta questa tesi, sostenendo che siamo già in possesso di un certo sapere, ma insufficiente per poter parlare di conoscenza vera e propria. Da qui possiamo partire dalla metempsicosi alla quale si affida il maestro come punto di partenza per la reminiscenza; le anime si incarnano in un corpo provenendo da vite precedenti e perciò sono provviste di un certo numero di ricordi seppur sbiaditi… Apprendere è ricordare, così l’uomo più giusto del suo tempo sostiene attraverso uno schiavo e grazie ad un problema matematico conferma la sua tesi, egli cava da sè il sapere, lavorando su ciò che la mente già possiede.

La reminiscenza non è utile per conoscere le idee, perché esse non sono l’oggetto della conoscenza, ma sono piuttosto lo strumento presente nella mente per comprendere cose della realtà sensibile.

Bach accompagna lo spettacolo, il quale prosegue con retorica e dialettica dando una lezione al pubblico, mettendolo in condizione di pensare, placando l’irrequieta frenesia delle nostre vite sempre meno educate alla riflessione.

Il rimando ai giorni nostri, l’attualità delle tematiche trattate mi fa credere che Platone aveva ragione nel dire che nessuno di noi compie il male volontariamente, perché tutti desideriamo la stessa cosa, la cosiddetta vita buona, tipica dell’etica socratica platonica, e tutto questo lo si può conseguire solo mediante la virtù.

L’impianto scenico e i costumi di Marinella Anaclerio e la regia di Flavio Albanese contribuiscono alla riuscita di questa opera filosofica rappresentata dagli attori con grandissima e sublime interpretazione di Roberto de Chirico, Loris Leoci e Flavio Albanese, i quali con enfasi e passione hanno riportato in vita, in mezzo a noi, grandi uomini come questi amanti del sapere e della conoscenza, amanti della vita, perché come diceva Platone nessun uomo può dire di non interessarsi alla filosofia, perché sarebbe come non interessarsi della propria felicità.

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