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Teatrionline > Blog > Prosa > Novantadue – Falcone e Borsellino 20 anni dopo
Prosa

Novantadue – Falcone e Borsellino 20 anni dopo

Costanza Bruscella
Ultima modifica: 16 Marzo 2015 08:42
Costanza Bruscella
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fotodi Claudio Fava

Testo inedito-novità italiana

con (in o.a.) Filippo Dini, Giovanni Moschella e Fabrizio Ferracane

Allestimento e Regia di Marcello Cotugno

Produzione BAM teatro in collaborazione con:

XXXVII Cantiere Internazionale D’Arte di Montepulciano

Festival L’Opera Galleggiante

—————

1992. Anno di triste memoria per il popolo italiano; anno che verrà sempre accostato ad una delle pagine più cruente ed orribili della nostra storia; anno in cui vennero barbaramente assassinati due magistrati, due uomini, due amici.

Questo testo nasce dal desiderio di raccontare proprio la dimensione umana di Falcone e Borsellino, fatta di vitalità, di amicizia, di solitudine, di profondo senso del dovere. È importante non solo capire come morirono, ma anche capire perché morirono e come vissero. Non è una delle tante celebrazioni “in memoriam”, ma l’omaggio di chi le ferite di Cosa Nostra le porta sulla pelle: l’autore, infatti, Claudio Fava, scrittore e parlamentare catanese, è figlio di quel Pippo Fava fondatore de “I Siciliani” assassinato nel 1984 dal clan Santapaola.

In un’ambientazione essenziale (poche sedie, un tavolo, una macchina da scrivere, una radio che trasmette canzoni contemporanee), comincia il racconto, in un atto unico, di ciò che avvenne in quegli anni bui: partendo dall’estate 1985, all’isola dell’Asinara, nel carcere di massima sicurezza dove Falcone e Borsellino vennero spediti per ordine del giudice Caponnetto, dopo l’omicidio del capo della squadra mobile di Palermo, Ninni Cassarà, proprio per completare l’istruttoria del Maxi Processo (il più grande processo penale mai celebrato al mondo: 474 imputati, 35 giorni di camera di consiglio, la ricostruzione di venti anni di crimini, violenze e corruzioni), si procede per fatti salienti, noti e meno noti, pubblici e privati, sino agli attentati dinamitardi di maggio e luglio del Novantadue.

Un’alternanza tra dialoghi e monologhi innescano sulla scena un contradditorio narrativo tra Falcone, Borsellino e altri due personaggi: un collega magistrato e un mafioso comune. Il primo è il nemico che si cela dentro casa, è la zona grigia, è il terreno della contraddizione, dove crolla ogni rassicurante steccato tra il bene e il male. Il secondo è un mafioso, uno che abbassa la testa ed esegue gli ordini, tranne uno: uccidere Paolo Borsellino, anche se nelle sue parole c’è più delusione che rimpianto.

Il testo è il racconto della loro solitudine, della loro umanità, delle loro passioni, delle loro notti insonni, delle loro paure, con le quali hanno convissuto fino all’ultimo, del rigore dei loro pensieri, di quel senso dello Stato altissimo, non negoziabile, con cui ogni giorno servivano il Paese. Il lavoro, i doveri di magistrato, venivano prima di tutto, anche della famiglia, mossi da quel coraggio che nasce dall’amore per le cose in cui si crede: “devi amare quello che vuoi cambiare, senza aver paura di prenderti addosso gli sputi della vita”.

Il regista, Marcello Cotugno, afferma che “tutto, anche la musica, più che fare che da commento all’azione scenica, servirà da veicolo emozionale per attingere alla solitudine di ciascuno di noi, ai momenti di abbandono che anche noi abbiamo vissuto, al senso di impotenza che anche noi abbiamo patito. Ai sentimenti di rabbia, paura, sconforto, entusiasmo, che appartengono a tutti. E che rendono umani anche gli eroi. Così erano Falcone e Borsellino. Così siamo tutti noi davanti alla menzogna di Stato che li ha uccisi. E che continua ogni giorno a contaminare le nostre vite”. E la speranza con la quale si abbandona il teatro, ancora oggi, dopo 20 e più anni, è la stessa che si auspicava Paolo Borsellino nella sua ultima lettera, scritta ad una professoressa di un liceo di Padova, proprio nel giorno della sua morte: ovvero la speranza nei giovani (molti presenti in sala), che “hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni; quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta”.

Chi ha paura muore ogni giorno; chi non ha paura muore una volta sola.

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