Maternità di Fanny & Alexander in scena a Bologna
Dopo i cinque premi UBU ricevuti lo scorso dicembre con Trilogia della città di K. la compagnia ravennate Fanny & Alexander è tornata in scena a Bologna con due lavori: Manson e Maternità. Il primo vede Andrea Argentieri nei panni del famoso assassino statunitense.
Il secondo, da me visto, porta sul palco del Teatro Arena del Sole una trasposizione del romanzo autobiografico dell’autrice canadese Sheila Heti, di cui unica interprete e drammaturga è Chiara Lagani, attrice e fondatrice della compagnia. Lo spettacolo prevede la partecipazione attiva del pubblico, dotato di un telecomandino non appena entrato in sala, con il quale può esprimere pareri affermativi e negativi, tirato
in causa personalmente dall’attrice che, in base ai risultati della platea, modifica l’evolversi della vicenda. La cosiddetta “vox populi” diventa così responsabile della scelta della protagonista, cruciale e sofferta, di avere o meno dei figli. È una scelta sulla quale sembra basarsi tutta
la sua vita, è una scelta obbligata a cui prima o poi le donne vengono chiamate, una scelta che fa da spartiacque nell’esistenza.
Il lancio dei dadi del libro dei Ching con cui la protagonista s’interroga sulle questioni più ardue durante la sua riflessione nel romanzo diventa, traslato sulla scena, scelta del popolo, democratica ma non per questo priva di giudizio. Maternità non è un monologo, ma bensì un discorso partecipato tramite le proiezioni delle risposte ai quesiti che il pubblico fornisce frequentemente, a metà fra un referendum e un
gioco. All’inizio sembra riguardare solo la singola vita della protagonista, nello specifico, ma man mano che lo spettacolo avanza gli spettatori si trovano a rispondere a temi da sempre controversi come in un sondaggio Istat, venendo a tratti tirati in causa anche con domande personali (e scomode, soprattutto per le donne). Un ottimo esempio di teatro partecipativo, che asseconda l’interesse sociale sempre più
crescente intorno a certi temi, di cui ultimamente si parla, si scrive e si dibatte molto, non accompagnato però a una conclusione ben precisa. Forse è meglio così, ma un punto, o punto e virgola almeno, magari avrebbe sciolto qualche nodo in più.
Erika Di Bennardo