Andato in scena presso il Teatro della Pergola di Firenze
Sarebbe straordinario poter assistere al tradizionale rituale che precede la messa in scena di tutte le opere di Gabriele Lavia: come spesso ha raccontato, chiude gli occhi e fa un giro su se stesso davanti alla libreria che occupa il raccolto studio di casa e, così, presceglie e adotta, per il suo successivo lavoro, il primo volume che si ritrova tra le mani, affidandosi forse al destino, forse all’ inconscio, ma alimentando comunque, irrimediabilmente, la sua personale leggenda.
Allievo di Orazio Costa, il maestro del linguaggio mimico come metodo centrale dell’espressione del discorso, Lavia è stato diretto dai più importanti registi della storia del cinema e del teatro, tra cui Giorgio Strehler; ha esordito poi egli stesso come regista teatrale nel 1975 e come regista cinematografico nel 1983, aggiudicandosi il Nastro d’argento già come esordiente, con il film Principe di Homburg.
Certamente, oltre ad essere uno dei più grandi registi e attori del nostro tempo, è il primo spettatore a restare catturato dalla bellezza dei testi che decide di rappresentare; si è confrontato da sempre con l’imponenza dei classici e dei capolavori inarrivabili della drammaturgia e da tempo desiderava riportare sul palcoscenico Eugene O’ Neill; il riadattamento di Lungo viaggio verso la notte è stato a sua volta un viaggio, una sfida e, forse, un omaggio a Renzo Ricci, il grande regista, attore e amico che, per la prima volta, nel 1957, anno in cui l’opera vinse il Premio Pulitzer, la diresse e interpretò in Italia, al Teatro Valle di Roma.
Durante il bellissimo incontro con il pubblico dietro le quinte, che ha preceduto lo spettacolo presso il Teatro della Pergola di Firenze, Lavia stesso, circondato dagli attori prediletti della sua Compagnia, ha rammentato il profondo e coraggioso lavoro di tagli di circa i due terzi dell’opera e la precisa volontà registica di lanciare il sasso nello stagno, probabilmente per incrinare e confondere le acque apparentemente cristallizzate e imperturbabili del capolavoro e riportarne in superficie i contenuti.
Il regista, che interpreta l’opera dell’autore ed è autore della messa in scena, sempre unica, irripetibile, votata all’hic et nunc , con questo lavoro di cura capillare riesce a sottrarre all’oblio la storia della drammaturgia, riportandola a confrontarsi con il presente, fino a farla presente oltre ogni presente, dimostrando che il teatro è immortale e più attuale di ogni attualità, perché coinvolge il pubblico, ne sollecita il pensiero e come la vita, citando Rainer Maria Rilke, comincia ogni giorno.
Se il teatro è il luogo dello sguardo, il luogo che svela il mistero dietro il sipario, Lavia sceglie, anzitutto, di lasciarlo perennemente aperto, ma anche di innalzare una palizzata di sbarre a difesa della quarta parete, che torna a favorire una più realistica rappresentazione degli attori, impossibilitati a scorgere il pubblico e privati anche dei microfoni che oggi delegano troppo spesso alle macchine altoparlanti il riverbero delle voci sulla platea, sacrificandone il suono autentico.
Nel clima soffuso e quasi spettrale delle luci di Giuseppe Filipponio, un paio di lampade da salotto e un lampadario acceso di rado, è facile immergersi nella storia della famiglia Tyrone, ambientata, per le scene di Alessandro Camera, in un vecchio salotto arrangiato di improvvisata mobilia e di un piano scordato; i libri sono sparpagliati per tutto il perimetro del palco e due altissime librerie, che forse rappresentano quelle di casa Lavia, troneggiano sullo sfondo a sinistra, centralmente divise da una scala, percorsa, poco a poco, secondo il dipanarsi della trama, dai personaggi che la discendono per testimoniare, simbolicamente, l’avvenuto lavoro di trasposizione dal testo alle scene.
Nella stanza della casa immersa nel nulla, l’unica finestra affaccia sul corno di nebbia che incessantemente suona ogni volta che cala la foschia sull’oceano; i personaggi, nei costumi di Andrea Viotti, fedeli all’abbigliamento tipicamente borghese del 1912, si ritrovano al mattino, a conclusione di una notte insonne, lamentando il richiamo continuo della sirena che non li ha fatti dormire e che invece sembra impersonare il generale stato d’animo allarmato dal serpeggiante timore della ricaduta di Mary, interpretata da Federica Di Martino, nella tossicodipendenza.
Il marito di Mary, Gabriele Lavia nei panni di James, la accoglie festante, ma segretamente indispettito dalla notte che la donna ha trascorso nella stanza degli ospiti.
Anche Edmund, il figlio ammalato di tubercolosi interpretato da Ian Gualdani e Jamie, il fratello maggiore interpretato da Jacopo Venturiero, sono esasperatamente accondiscendenti verso la madre, seppure tradiscono un certo risentimento nei suoi confronti.
Mary, che ha perso un figlio anni addietro, è una morfinomane e seppure i familiari vorrebbero illudersi che la donna è guarita, sanno benissimo che ha ripreso ad abusare della sostanza; del resto, la sostanza non può che rappresentare un tentativo fallimentare di cura di una palese depressione, mai diagnosticata dal medico a buon mercato scelto dal taccagno James per le cure dell’intera famiglia.
Una storia di realismo psicologico e di omeostasi delle dinamiche disfunzionali di una famiglia, ma anche una narrazione coerente di doppio legame del narcisista James, sempre preso dai guadagni, dall’acquisto di terre e dal suo lavoro di attore girovago, con la moglie alienata, apprensiva eppure distante da figli lasciati a se stessi, mai cresciuti, dipendenti dall’alcool e privi di ogni desiderio di realizzazione.
Eugene O’Neill, insignito del premio Nobel nel 1936, si occupò a lungo della stesura dell’opera che, tuttavia, fu pubblicata solo dopo la sua morte, per gli aspetti particolarmente autobiografici che la caratterizzavano: la madre morfinomane, il padre alcolizzato e lui stesso affetto da tubercolosi.
Dedito all’alcool, fu espulso sia dall’università di Princeton che da quella di Harvard, viaggiò molto e solo quando si ammalò di tubercolosi e dovette entrare in sanatorio, iniziò a scrivere; spesso, nei suoi drammi, raccontò esperienze vissute in prima persona, ma si dedicò anche all’analisi dei sentimenti umani, alla critica del conformismo, del razzismo, dell’avidità e dell’irrazionalità che caratterizzano le pulsioni di dominio.
Fu uno studioso della tragedia greca e del teatro europeo, influenzato dalle opere di Henrik Ibsen e dalle teorie freudiane e si espresse apertamente contro il capitalismo, la corruzione e l’alienazione che caratterizzavano la società americana; è possibile pensare di identificarlo nel personaggio di Edmund, narrato nei trascorsi antecedenti al suo riscatto attraverso la scrittura, ma il sequel dell’opera, Una luna per i bastardi, l’ultima fatica del drammaturgo, ripercorre ancora il tema della morte della madre per overdose e il lento disfacimento del protagonista, a causa dell’alcolismo.
Portando in scena questo capolavoro, il gigante Lavia ha creduto di lanciare un sasso nello stagno ed ha, invece, sprofondato un macigno sul pubblico, congelato e completamente assorbito dal ritmo dei dialoghi, via via, sempre più aggressivi, cupi e disperati, in un clima di rassegnazione crescente che non ha lasciato spazio all’immaginazione.
La naturalezza delle interpretazioni lascia presagire una solida struttura della costruzione scenica e una direzione attenta a ogni particolare interpretazione paraverbale dei sentimenti dei personaggi, oltre ad una scelta anche fisiognomica degli attori ,che non si sono risparmiati, sino a farsi madidi di sudore, in una delle più struggenti e realistiche rappresentazioni del sentimento della rabbia e del suo declino.
Lungo viaggio verso la notte
di
Eugene O’Neill
con
Gabriele Lavia, Federica Di Martino
e con
Jacopo Venturiero, Ian Gualdani, Beatrice Ceccherini
regia
Gabriele Lavia
scene
Alessandro Camera
costumi
Andrea Viotti
musiche
Andrea Nicolini
luci
Giuseppe Filipponio
suono
Riccardo Benassi
produzione
Effimera, Teatro della Toscana