Andato in scena al Teatro di Fiesole, Firenze
Per il terzo anno consecutivo il Teatro di Fiesole sceglie di festeggiare il Natale insieme ad Alessandro Riccio. Dopo Sì, son sassi, lo spettacolo dedicato all’architetto Poggi che lo ha visto sul palco insieme a Gianmaria Vassallo, e l’ultimo capitolo dedicato all’ormai iconica Bruna, questa volta il prolifico regista e attore presenta uno spettacolo che parla proprio del suo mestiere, ovvero dell’arte del narrare. Incompiuti è una produzione che coinvolge ben quattordici attori – cosa alquanto rara di questi tempi.
Figura centrale dello spettacolo è lo stesso Riccio, autore e regista, nei panni di Lionardo Guerrero, un drammaturgo sfaticato, insicuro, indisciplinato, colpito da lampi di genio tanto folgoranti quanto dilazionati nel tempo. Soprattutto, un uomo tormentato dai suoi stessi personaggi, i veri protagonisti, creature rimaste sospese in un limbo narrativo, in attesa di una conclusione che tarda ad arrivare. Anzi, non arriva proprio. Quelli di Guerrero non sono personaggi in cerca d’autore di pirandelliana memoria – a dire il vero l’autore è l’unica cosa che hanno, ed è la loro sola speranza di compiersi. Il problema è che quest’autore procrastina, rimanda, si distrae, trova sempre nuove scuse per non concludere le loro storie.
C’è il figlio segreto della regina Vittoria, che ha appena scoperto le proprie origini regali ed è come incastrato in un meccanismo d’orologio che ferma il tempo, senza la possibilità di uscirne. C’è una giovane ragazza siciliana che porta in grembo suo figlio da 19 mesi, tanto il suo creatore ha procrastinato la fine della sua gravidanza. C’è una regina barocca che, diventata vedova, si ribella al consiglio dei vescovi, rivendicando il proprio potere. Storie che si interrompono proprio sul più bello, quando la tensione narrativa raggiunge il suo apice, perché – come sa bene ogni scrittore – è lì che le cose si fanno difficili. È lì che si decide il destino di una storia, il suo successo o il suo fallimento. E Lionardo un destino non sa deciderlo, né per sé stesso né tantomeno per i suoi personaggi.
Personaggi che non si limitano a esistere sulla carta, ma prendono vita sul palco, figure quanto mai diverse tra loro, ciascuna caratterizzata da una propria personalità, da un proprio modo di pensare, parlare e reagire alla propria incompiutezza. Qualcuno venera Lionardo come un genio, qualcun altro lo considera un nullafacente, diventando contemporaneamente, oltre che personaggio, anche pubblico e critico. Allo stesso tempo, in ognuno di loro c’è qualcosa del loro creatore, che sia un pregio, un’ambizione o un demone. Una voce interiore plasmata a immagine e somiglianza del Lionardo che è, è stato o vorrebbe essere in un determinato momento della vita.
Riccio si è contornato di un eterogeneo, meraviglioso cast che dà vita a questo carosello di personaggi piacevolmente caricaturali e profondamente autentici: Miriam Bardini, Sabina Cesaroni, Vania Rotondi, Piera Dabizzi, Daniele Favilli, Lorenzo Carcasci, Elisa Vitiello, Fabio Magnani, Sofia Busia, Vieri Raddi, Michela Stellabotte, Daniela D’Argenio, Fiorenza Brogi e Davide Arena, che all’ultimo momento ha sostituito Joe Manganas. Tredici mondi che convivono sul palco diventando all’occasione protagonisti e comparse, nemici e alleati. E un quattordicesimo che dovrebbe comprenderli tutti, ma fatica anche a tenere il filo della sua vita, figuriamoci quello delle altre.
Un gioco meta-teatrale dei più esplorati, che vede il testo nascere proprio dall’incapacità dell’autore di concludere le sue opere, dal tormento che questo comporta. Da tante storie incompiute Riccio ha creato un’opera compiuta, che riflette sul processo creativo e, in senso più ampio, sulla difficoltà di portare a termine qualsiasi cosa, avvertendone l’importanza. Vale nella scrittura come nella vita professionale e privata, e la storia di Lionardo con Camilla (l’ultimo personaggio ad aggiungersi alla brigata e il primo a compiersi, seppur nel peggiore dei modi).
Quanto ci sia di Alessandro Riccio in Lionardo Guerrero non è dato saperlo, ma certo il tormento che entrambi vivono quando le loro storie rimangono in sospeso è lo stesso, in attesa di quella parola ‘fine’ che è tanto difficile da scrivere, tanto liberatoria, e forse anche quel tanto di malinconico che basta a rendere ancora più complicata la sua realizzazione. Un tormento che purtroppo manca di una reale profondità, e che svela unicamente il lato comico di quelle voci interiori lasciando solo immaginare le ombre che si portano dietro.
In questa galleria di incompiuti di Riccio solo un personaggio ha trovato il suo lieto fine: Venanzio, un profumiere del Settecento che si è trasformato in Amedeo Ottaviano Gusbertini, protagonista dello spettacolo Solitario. Tutti gli altri continuano a reclamare il proprio diritto alla conclusione, al compiersi della loro storia. E chissà che non ne vedremo in scena delle altre in futuro, uniche e universali come Riccio ha dimostrato di saperne creare.
La pièce si inserisce in una stagione teatrale particolarmente ricca per Riccio, quasi come se sentisse il bisogno di fermarsi e interrogarsi sulla propria capacità di raccontare – e soprattutto concludere – storie in un tempo sovraccarico di stimoli, dove è sempre più difficile distinguere tra l’originalità e l’imitazione. Se una notte d’inverno un narratore portasse a compimento tutte le sue opere, probabilmente subito dopo sentirebbe il bisogno di trovare un nuovo finale per almeno una di esse.