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TeatroBasilica, Diario di un dolore

Federico Mattioni
Ultima modifica: 18 Gennaio 2025 08:09
Federico Mattioni
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Dal 16 al 19 gennaio a Roma

Cos’è questo dolore che scarnifica, finendo per mettere a nudo un uomo e una donna, rei confessori di un inafferrabile disagio psichico? Sembrano conoscersi bene, sembrano essere amici, forse compagni, un tempo almeno. Si guardano, osservano di tanto in tanto il pubblico, sotto i loro stessi riflettori, dai riflessi opachi. Cominciano a dialogarci in maniera franca e diretta, nel tentativo d’indagare il tema dell’infelicità, di quella sensazione di vuoto che ci attraversa in alcune fasi particolari della vita, nella fattispecie, in quelle in cui viene a mancare una persona a noi cara, come può essere ad esempio un genitore.

Francesco, a partire da alcuni spunti (più che spunti, frasi di rimando) desunti dall’omonimo testo di C.S. Lewis, e facendosi ammaliare ed influenzare dall’autoritratto di Franz Ecke, presente in bella mostra quasi al centro della scena, passa spesso e volentieri la palla ad Astrid e viceversa. In questa stanca e riflessiva alternanza di sensazioni ed opinioni consiste la particolarità dello spettacolo. Partendo dal presupposto che il dolore, nel processo di catarsi, può essere spettacolarizzato, talvolta anche con effetti comici (che il duo ci mostra partendo morbidamente, per poi concludere in maniera più introspettiva), l’indagine che Alberici e Casali conducono non ha in realtà punti di riferimento dichiarati, sguardi di contatto.

Ci sono delle linee di partenza e demarcazione ma poi il flusso delle idee, delle sollecitazioni, dei suggerimenti e delle provocazioni, propende per una umoralità che offre la sensazione di prestare volentieri il fianco a situazioni al limite delle improvvisazioni, senza una organizzazione dei tempi e dei toni espressivi, adeguatamente compresa e affabulata. Si comincia, con tanto di luci alte e diffuse, con l’offerta del vino (dando ad intendere che in vino veritas?) e si tocca da subito il tasto dolente di un tentativo fallito di terapia psicologica di associazione del dolore fisico a componenti emotive derivanti da un subconscio aggrovigliato (secondo la visione lacaniana, dallo psicoterapeuta Lacan che rilegge alcune teorie di Freud). Il dialogo con se stessi e con il prossimo di Astrid e Francesco si succede con franchezza e spazia dai ricordi dell’adolescenza lacerata a quel senso di svuotamento e privazione di cui prima, senza apparente dimora.

Il sogno dell’America per Astrid, e di quella stessa aspirazione infine allontanata, equivale alla negazione del proprio potenziale che si riflette sull’impasse dialogica di Francesco. Sono l’una il riflesso dell’altro. Ad accompagnare questa danza d’incertezza che volutamente (o non tanto volutamente) sottolinea anche la voglia di non volersi adeguare ad una struttura drammaturgica tradizionale o ad una linea recitativa di prestazione enfatica, sopraggiungono le note musicali di due noti brani dei Joy Division (Disorder e Atmosphere) che i due interpreti danzano non senza un filo d’imbarazzo, nella constatazione dei limiti fisici dell’uomo. Trattasi a tutti gli effetti di una simulazione del dolore, di quel famoso “guizzo nello sguardo dell’uomo ritratto” che si cela comunque dietro il velo delle apparenze dei nostri dinieghi e di tutte le nostre sofferenze.

E si fa festa dedita alla constatazione degli atti reiterati nel tempo. Solo palloncini a denotare, una moltitudine di palloncini colorati a contornare la consapevolezza di un processo di auto-isolamento. Sarà per via della citata volpe capace di rosicchiare il plesso solare? Rimane il dubbio ma le note di Andrea Laszlo De Simone sembrano offrire una sorta di programmatica consolazione, a suggellare la luce bassa diretta sul tavolino dei resti di un passato impossibile da riallineare, incapace di produrre del nuovo, in faccia all’umano di chi ha imparato a farci i conti, con la solitudine.

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